Gli adolescenti e la nascita delle Alpi

Quando è necessario cambiare prospettiva per far spazio all’inedito

di Massimo Ruggeri, consigliere nazionale e referente adolescenti e giovani politiche CNCA

 

Oro nella staffetta 4×100

Ho ancora negli occhi la splendida corsa della staffetta 4×100 che ha consegnato all’Italia la medaglia d’oro alle ultime Olimpiadi. Una gara perfetta, in cui i quattro staffettisti hanno saputo dare il meglio di sé, sia come atleti che come squadra. Già, perché il segreto della staffetta è correre insieme, passando il testimone esattamente al momento giusto, né prima né dopo. Vuol dire fidarsi dei propri compagni, che saranno pronti sia a prendere il testimone e continuare la corsa, sia a cedere il testimone al termine della propria frazione. Solo così si possono ottenere grandi risultati: se uno dei due non si facesse trovare pronto sarebbe la fine della gara.

In questi ultimi anni si torna spesso a parlare del ruolo dei giovani e dei giovanissimi all’interno della nostra società. Lo ha ricordato anche il presidente Mattarella nel suo ultimo discorso di fine anno.

«Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società». E poi ancora, citando la lettera del professor Pietro Carmina: «Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare».

Eppure, se mi guardo attorno, trovo segnali di tutt’altra natura: i titoli dei giornali parlano di adolescenti e giovani quasi esclusivamente quando sono colpevoli nei fatti di cronaca (o al più per comportamenti irresponsabili durante la pandemia), i Neet sono un numero inaccettabile e i giovani che hanno ruoli di responsabilità sono delle mosche bianche.

Viene il sospetto che nel passaggio di testimone qualcosa non abbia funzionato.

Sono troppi anni che i giovani sono tenuti ai margini della società per pensare che la causa sia da ricercare in una presunta impreparazione delle nuove generazioni. C’è un sistema culturale, economico e politico che sta rendendo complesso questo passaggio. Che la nostra sia una società bloccata non è certo una novità, così come da anni si parla con insistenza degli effetti che l’attuale crisi demografica avrà sulla tenuta del sistema Paese.

Ma la costante sottovalutazione del ruolo dei giovani non può che produrre una sostanziale incapacità di immaginare un futuro differente. E se è vero che il futuro non è altro che l’esito delle possibilità coltivate nel presente, il rischio concreto è quello di una società senza prospettive, arroccata su se stessa e ostaggio di un continuo sguardo al passato. Qualcuno la definisce sindrome dello specchietto retrovisore.

Simbolicamente, lo abbiamo visto di recente anche nel dibattito sui fondi del Pnrr: a un’Europa che proponeva il Next Generation EU, quindi un piano orientato a una differente visione di futuro, in Italia si è continuato a parlare di Recovery, cioè di un piano orientato a ripristinare le condizioni precedenti.

C’è una consolidata tendenza a guardare al passato anziché al futuro. Non è un caso se sempre più giovani prendono seriamente in considerazione l’idea costruire la propria vita lontano dall’Italia.

Anche quanto è successo da quando un minuscolo virus ha stravolto le nostre vite non ha cambiato questa tendenza, anzi, la crisi di questi anni sta esacerbando le numerose disuguaglianze già presenti tra generazioni, tra generi, tra territori (Nord/Sud, ma anche centro/periferia, area urbana/area interna), tra diverse situazioni sociali…

Le disuguaglianze economiche, culturali e di prospettiva sono esplose quantitativamente e qualitativamente e non sono più né accettabili né sostenibili.

Lo abbiamo sperimentato violentemente durante il primo lockdown. Anche tra studenti della stessa classe sono emerse differenze incolmabili; perché le nostre case non sono uguali, perché le nostre famiglie non sono uguali, perché il nostro accesso ai dispositivi tecnologici non è il medesimo.

E queste disuguaglianze hanno profondamente segnato il percorso di numerosi giovani. Non sappiamo ancora se e come sarà possibile colmare i divari che si sono generati, di certo non sarà una questione di poco conto: stiamo osservando un’esplosione del malessere adolescenziale, un malessere forte che cerca valvole di sfogo, talvolta anche disfunzionali, come dimostrano numerosi fatti di cronaca che vedono protagonisti in negativo adolescenti e giovani. Ovviamente non si tratta di giustificare condotte violente, ma di comprendere le origini di forme di disagio dilaganti e provare a porvi rimedio.

La tensione dell’arco

In estrema sintesi, e con non poca approssimazione, possiamo ricondurre i compiti evolutivi dell’adolescente a tre grandi sfide: ricostruire un rapporto con il proprio corpo che cambia; definire una nuova immagine di sé in relazione con il mondo esterno; riposizionarsi all’interno della società.

Tutte e tre queste sfide vanno risignificate alla luce di quanto sta succedendo.

Il Covid ha portato nella vita degli adolescenti due temi che la nostra società aveva fatto di tutto per rimuovere: la malattia del corpo e la morte.

Molti ragazzi hanno spesso provato una profonda angoscia per la malattia – e in alcuni casi la morte – di quei nonni che li avevano accuditi durante l’infanzia.

Malattia e morte rappresentano i limiti più evidenti del nostro essere umani. Ma la nostra è una società che negli ultimi decenni ha costruito una narrazione dell’uomo onnipotente; e in questa narrazione non c’era spazio per limiti e debolezze.

Basti pensare a slogan pervasivi come «impossible is nothing», «no limts», «tutto intorno a te» (solo per citarne alcuni dei più famosi), al sempre più frequente ricorso a interventi (fisici e virtuali) per rimuovere i segni di un corpo che invecchia, oppure a quel filone di pensiero che vede nella morte un mero errore tecnico da risolvere…

Le giovani generazioni – di ragazzi e di genitori – sono cresciute in un clima culturale che molto spesso ha operato una rimozione di tutti quei segnali che potevo presagire la limitatezza dell’essere umano. Malattia e morte sono stati a lungo temi tabù, in molti casi a bambini e ragazzi era preclusa la possibilità dell’ultimo saluto a un parente deceduto «per non turbare la loro sensibilità».

Improvvisamente sono stati costretti a fare i conti con l’evidenza di corpi che non erano onnipotenti ma, anzi, venivano colpiti da un virus invisibile fino a non essere più in grado di respirare. E giorno dopo giorno questa esperienza diventava sempre più vicina, spesso entrando nelle loro case e nelle loro famiglie.

Con la pandemia è arrivato anche l’isolamento. E quella casa in cui molti di loro cercavano di stare il meno possibile è diventata la loro bolla. Per qualcuno quella bolla era inaccettabile e invivibile e si è sentito rinchiuso come in un carcere. Per altri, rendere confortevole quella bolla era il miglior modo per affrontare la situazione. Ma, in quella bolla, il corpo era costretto all’inattività, le relazioni indirette e il rapporto con il mondo esterno mediato da uno schermo. Ci sono molti tratti tipici del ritiro sociale, e forse non è un caso che ancora oggi per qualcuno è così difficile tornare a uscire.

Non è stata solo la pandemia ad affaticare la vita degli adolescenti, ma anche la risposta che – come società – abbiamo dato e stiamo dando alle loro esigenze.

Che messaggi simbolici abbiamo mandato agli adolescenti quando per mesi abbiamo lasciato chiuse le scuole perché non sapevamo trovare soluzioni al sovraffollamento degli autobus? O quando abbiamo detto che la campagna vaccinale per il personale della scuola non riguardava gli studenti?

Troppo spesso li abbiamo resi invisibili ed estranei alla società. Quando poi è finito il primo lockdown eravamo troppo concentrati a stendere i protocolli di sicurezza per riaprire gli spazi educativi e aiutarli a rielaborare un’esperienza più grande di loro. Invisibili, estranei e soli, si sono arrangiati come potevano.

Nel tiro con l’arco è la tensione impressa alla corda che permette di scoccare la freccia. Maggiore è la tensione, più la freccia andrà lontano. Non per tutti, ma per molte ragazze e ragazzi è come se fosse venuta meno quella tensione (non a caso si parla di tensione evolutiva), e un arco a riposo non è in grado di scoccare nessuna freccia.

«Non possiamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema»

L’impatto della pandemia sulle nostre vite è stato molto profondo e ci riguarda tutti, tanto che sempre più spesso capita di incontrare persone che datano gli avvenimenti a «prima o dopo la comparsa del Covid».

Eppure, questo «dissesto antropologico» (come è stato definito da Franco Arminio) nasce da questioni che in gran parte erano già presenti. La rimozione dei limiti fisici e dell’esperienza della malattia e della morte nella nostra vita, il peso di disuguaglianze sempre crescenti, la marginalizzazione dei giovani nei processi di governance sociale… sono questioni aperte sulle quali da anni cerchiamo di portare l’attenzione.

Forse allora la pandemia (intesa in senso lato, sia come aspetto sanitario sia come esperienza di lockdown) è un elemento di discontinuità nella misura in cui la dimensione e l’intensità dell’esperienza hanno tolto il velo a fenomeni già in essere. Questo disvelamento però non è secondario, proprio perché, come nella nota favola, una volta che il bambino ha gridato che il re è nudo nessuno può più fingere di vederlo vestito.

Nei primi mesi di lockdown era diventata virale la fotografia di un muro nel Sud del mondo con scritto «Non possiamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema». È la presa di coscienza che la risposta non va ricercata nel ritorno al passato ma nella capacità di immaginare un futuro differente.

Lo hanno rimarcato anche gli studenti, spesso capaci di una sintesi tagliente, contestando una scuola «che ci prepara a una vita che non esiste più da vent’anni».

Quando nel libro di Baricco il trombettista incontra Novecento, sull’oceano si è abbattuta una violenta tempesta e lui, come molti altri, vive il terrore di fare la fine del topo. Ma Novecento cambia la prospettiva: «E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano».

In una situazione in cui è necessario guardare a elementi di discontinuità come possibili anticipatori di futuro abbiamo l’opportunità di costruire una narrazione differente, provando come Novecento a «danzare con l’Oceano». In questo processo l’apporto dei giovanissimi può essere determinante: anche in questo scenario molte e molti adolescenti stanno continuando a produrre visioni di futuro, a lottare per la giustizia sociale, a costruire esperienze innovative.

In una società che da anni sta vivendo un esodo collettivo dalla cittadinanza, giovani e giovanissimi mostrano un’alternativa: prendono parola e raccontano il mondo che li circonda con parole nuove. Parole che sempre più spesso non hanno come destinatari quel mondo degli adulti che sembra incapace di comprenderle.

Giovani e i giovanissimi stanno scrivendo il futuro, con linguaggi e pratiche innovative, indicando strategie nuove per affrontare questioni che riguardano l’intera società (basti pensare alla sensibilità ambientale, alle competenze tecnologiche, alla capacità di condividere…). Siamo noi che abbiamo bisogno di loro perché i nostri sguardi sono limitati e le nostre parole, da sole, suonano vecchie.

I movimenti più interessanti degli ultimi anni vedono coinvolti adolescenti prima ancora che giovani, un fenomeno inedito che sembra sprigionare nuove energie vitali e nuove forme organizzative.

Probabilmente si tratta ancora di fenomeni per certi versi embrionali e che coinvolgono un numero limitato di ragazzi, ma l’abbassamento dell’età media, le questioni poste – fortemente coerenti con lo spirito dell’Agenda 2030 – e modalità organizzative che sembrano voler superare i temi della rappresentanza e dell’intermediazione lasciano presagire la possibilità di un rinnovato interesse sociale che, se coltivato e curato, potrebbe rappresentare la punta dell’iceberg di un più ampio movimento di rinascita culturale.

L’orogenesi delle Alpi

Il paradigma su cui si basa lo sviluppo della nostra società era stato magistralmente raccontato in una scena del film 2001 Odissea nello spazio: quando l’ominide raccoglie da terra un osso scopre il suo potere e si sente invincibile. Da quell’esperienza di potere inizia il progresso, tanto che quell’osso lanciato in aria si trasforma in una nave spaziale. Anche se sta mostrando tutti i suoi limiti, la narrazione di una civiltà basata sul potere e sull’invincibilità è tutt’ora dominante.

C’è però un’altra narrazione che sta trovando sempre più spazio e che può essere sintetizzata nelle parole dell’antropologa Margaret Mead: il primo segno di una civiltà antica è un femore rotto e poi guarito. È la prova che qualcuno si è preso del tempo per stare con colui che è caduto. Aiutare qualcun altro a superare le difficoltà è dove inizia la civiltà.

Una società basata sulla capacità di prendersi cura delle persone, dell’ambiente, delle relazioni: è una visione che sta animando molte esperienze tra loro diverse ma accomunate dall’idea di quella che può essere definita un’economia sociale e circolare. Un’economia di prossimità, basata sulle relazioni tra le persone e gli ambienti di vita e capace di dare un nome ai volti e un volto alle storie delle persone.

La prossimità è principalmente un modo di porsi: nella risposta ai bisogni delle persone più in fatica, nella costruzione di patti di comunità capaci di affrontare i problemi comuni, nel rapporto tra la comunità locale e l’ambiente circostante. È un modo di porsi che è particolarmente vicino allo stile relazionale degli adolescenti e dei giovani che, anche quando guardano alla dimensione globale, agiscono spesso pratiche fortemente ancorate alla comunità locale.

Ne sono un esempio movimenti globali come Fridays for future, capaci di connettersi e coordinarsi in tutto il mondo e, allo stesso tempo, di realizzare azioni e proposte che impattano a livello della singola comunità locale. Ma anche numerose iniziative di autoimprenditorialità giovanile che sanno coniugare una spiccata capacità di utilizzo delle ICT con il recupero di tradizioni e di relazioni all’interno della comunità locale. O i numerosi progetti di attivismo civico che stanno fiorendo nei nostri territori.

Così, ad esempio, in una città gruppi di giovanissimi si sono resi disponibili a portare le eccedenze alimentari dei negozi di quartiere alle famiglie più bisognose: creano relazioni con i commercianti e le famiglie, e aiutano la comunità a prendersi cura di se stessa. Si muovono in bicicletta, perché la cura riguarda anche l’ambiente… Oggi altri ragazzi stanno costruendo delle cargobike per rendere più efficaci gli spostamenti e per dare maggiore visibilità a una comunità che ha scelto di viversi prossima. In molti altri territori gruppi di giovanissimi hanno scelto di dedicare il loro tempo alla comunità, ripulendo argini e sentieri, risistemando spazi abbandonati, dialogando con artigiani e commercianti…

Si tratta di esperienze che andrebbero rilette con maggiore attenzione: per accompagnare i percorsi identitari dei giovani coinvolti, per sostenere i cambiamenti generati nelle comunità locali e per evitare che rimangano processi elitari o comunque in grado di coinvolgere poche persone.

Oggi più che in passato lo sforzo educativo di accompagnare i processi di crescita degli adolescenti non può essere disgiunto dal riconoscimento di un loro nuovo protagonismo sociale. Sostenerli nel processo di rielaborazione di un’esperienza tanto traumatica e di risignificazione dei compiti evolutivi è parte integrante del processo di attivazione sociale e viceversa. «Siamo una generazione senza sogni e aspettative e questo ci fa essere così arrabbiati» è l’amaro commento rilasciato da alcuni giovani nel presentare il loro movimento. Una posizione che necessita di una risposta comunitaria, capace di «ri-attivare» grazie a una visione coinvolgente di futuro (non a caso parlano di sogni) e con la proposta di un percorso aperto.

Di recente mi è capitato di passare nella Valle di Cogne, dove l’orogenesi delle Alpi è particolarmente visibile. Diversi milioni di anni fa le placche europea e africana si sono spinte l’una contro l’altra: rocce di origine diversa si sono trasformate adattandosi alle nuove condizioni sino a serrarsi insieme, anche in maniera brutale. Il risultato è stato qualcosa di inedito: la nascita di quel capolavoro naturale che noi chiamiamo Alpi.

Per certi versi stiamo assistendo a qualcosa di analogo: nelle nostre comunità, con non poche fatiche e contraddizioni, gli adolescenti e i giovani si stanno mostrando come una nuova placca tettonica in grado di modificare lo status quo. Possiamo continuare a fingere che un cambiamento radicale non sia in corso, sforzarci di ricostruire l’equilibrio preesistente e condannare le giovani generazioni all’irrilevanza sociale; oppure accettare insieme la sfida di immaginare oggi un futuro diverso e restituire a giovani e giovanissimi visibilità e dignità e quel protagonismo sociale che hanno dimostrato più e più volte di saper gestire con intelligenza e innovazione.

(Photo by Charlotte Karlsen on Unsplash)

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